#labarabarca

Il viaggio di Isotta con – e per – la sua bar(c)a è più evidente se lo mettiamo nella prospettiva di un confronto artistico e antropologico con il modo in cui il viaggio può essere concepito e vissuto da esponenti delle culture anglosassoni. Hamish Fulton e David Tremlett – per citare due artisti che in modo diverso hanno incentrato sul cammino la loro poetica – nei loro itinerari non erano tanto interessati agli aspetti socio-culturali dei paesaggi che attraversavano, quanto alle sensazioni diffuse che questi gli restituivano: il loro approccio è tutto fondato sul concetto di viaggio come esperienza mistica in cui l’atto stesso del  viaggiare non è che il mezzo per affrontarla, uscendo dai propri confini, cercando se stessi in luoghi estranei.

Questa estetica si può intendere come sviluppo di una matrice romantica che si palesa in due culture tanto diverse, quasi antitetiche: lo spirito colonizzatore delle culture anglosassoni, più sradicate e pronte all’incontro con (verso) il diverso, e la tradizione mediterranea con la sua innata volontà di tornare alle proprie origini, al proprio humus, alla propria letteratura dove, solo, trova il conforto dell’appartenenza (mi viene in mente, per giungere nello specifico del vissuto partenopeo, la serie performativa Avviso ai naviganti di Sergio Fermariello – dal 1999 al 2003 – in cui il naufragio messo in scena nelle acque prospicienti Castel dell’Ovo è associato a un ritorno agli antenati). 

È in quest’ottica, così mediterranea, che Isotta lascia la città adottiva (Milano) per fare ancora una volta ritorno nel grembo della città madre (Napoli) e lo fa con i canali comunicativi che più appartengono alla sua storia personale e al carattere mitologico, irriverente, ctonio e celeste di questa terra. Questa traversata si rivela, dunque, come l’ennesima trasgressione di un tabù (la designificazione della morte o, meglio, dell’icona della morte) ed è una prova tanto individuale, intima, quanto tesa alla collettività di una terra in cui i morti non muoiono mai e la vita si svolge per strada, tra le pubbliche vie e non è mai del tutto privata. 

Così #labarabarca esce dai luoghi specificamente deputati all’arte in un’azione opposta – ma sintonica – all’idea di violenza distruttrice con cui Gianni Pisani assalì la bara collocata nella grande sala dell’Accademia di Belle Arti napoletana da cui nacque, nel 1973, l’installazione Il dondolo. La bar(c)a, invece, si confronta con un pubblico eterogeneo da ogni punto di vista e si colloca nel filone dell’arte pubblica, in bilico tra relazionale (in quanto prende la sua linfa dalla comunità e la rende partecipe per il semplice fatto di essere ospitata in essa e, dunque, non precluderle un coinvolgimento a vari livelli) e land (perché – uso le parole di Celant riguardo i princìpi su cui essa si fonda – “sollecita un senso di reciprocità basato su una mutualità reale in cui l’arte crea uno spazio ambientale, nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte”): interventi effimeri che si inseriscono nelle stratificazioni storiche, paesaggistiche, architettoniche e più puramente comunicative del tessuto urbano e umano.  

L’ancora breve, ma ricco, percorso estetico di Isotta Bellomunno è piuttosto eterogeneo e ha visto alternarsi momenti puramente pittorici ad altri di ispirazione più plastico-scultorea che sfociano, poi, in azioni performative dal contenuto provocatorio, sì, ma lontano da vezzi lunaparkeschi. 

Le sue bare sono, piuttosto, forma confidenziale, oggetti che lei eleva a icona con fare quasi omeopatico come tramite sfacciato tra la sua poetica e un cognome così importante (ma per niente ingombrante) legato alla più antica agenzia di onoranze funebri napoletana e italiana.

E così l’icona di tradizione diventa icona di sperimentazione oggettuale e si trasforma in piccoli dolcetti di oldenburghiana memoria (serie Sweet Coffin, 2007), in oggetti ludici (Unisci con una freccia il cucchiaino al dolcetto giusto, 2008) pronti a trasformarsi all’occorrenza in una grande icona pop con colori acidi, come “la cassa” verde (Sweet Coffin II, 2011) che, grondante panna montata e amarene, suscita nei fruitori sguardi diversi tra cui quello divertito di signore imbiancate e, in ultimo,  in madia di sostegno all’impasto del pane (Not all that rises is bread, 2012) e, quindi, all’atto creativo per eccellenza. Il potere di capovolgimento dei significati, di “revisione dei codici e delle convenzioni socialmente acquisiti” (Daniela Palazzoli, 1974). 

La bara, originariamente simbolo di stasi della condizione esistenziale umana, da oggetto dada anti-teocratico giunge a diventare barca. In una ricerca di valori immutabili pur nella loro mutabilità, la bar(c)a è coprotagonista di un’azione performativa in cui si abbandona quasi il carattere assolutamente gestuale e si guadagna un lavoro più che mai incentrato sul corpo: è un viaggio che comincia e prosegue in quel mare che non bagna Napoli ma che dalla città si lascia vivere, che è fatto di acqua e sale, che accoglie la vita come un grembo materno. Che sia placenta o piscio, latte materno o sperma è la stessa cosa. 

#labarabarca è percorso vitale (concepimento-nascita, gestazione-vita, nascita-morte) e la bar(c)a mantiene il suo sostantivo nell’oggettivazione del Thanatos, la pulsione di morte, che l’Eros è destinato a combattere senza tregua.

In questo conflitto ciclico si palesano i remi, rimando figurativo alla lotta dell’esistenza umana in quel liquido amniotico che Isotta Bellomunno identifica con il mare, fonte di vita come di morte. 

Ricchi rimandi simbologici in cui l’approdo ha (e assume) un ruolo autorevole:  quel Castel dell’Ovo  che, secondo evoluzioni leggendarie, ospitò (ospita?) prima l’uovo donato da Virgilio mago a protezione (o rovina) della città, poi le stesse ossa del poeta-mago latino accolto dagli autoctoni a tal punto da diventare protettore di questa terra. Enrique Vargas ce ne restituisce un’immagine quanto mai densa: “Abbiamo capito quindi che nella fragilità assoluta di un uovo sta tutta la sicurezza e la forza di una città. Nella fragilità si trova sempre la forza. Questa è Napoli, ai nostri occhi”. E come in un racconto epico, il viaggio sulla bar(c)a a remi diventa atto propiziatorio per la città e Isotta eroina per se stessa.

Anna Lucia Cagnazzi

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